La notte tra il 16 e il 17 gennaio si usa accendere un fuoco per festeggiare Sant’Antonio: il focarazzo di Sant’Antonio, un rito che si lega a usanze antiche, fra religione, magia e cicli naturali.
Tentazioni diaboliche
Antonio Abate è stato il fondatore del monachesimo cristiano ed è uno dei quattro Padri della Chiesa d’Oriente che portano il titolo di “Grande”. Antonio fu il primo degli abati, superiori di una comunità monastica di dodici o più monaci. Nato nel cuore dell’Egitto, fin da giovane si dedicò alla vita anacoretica e come eremita visse lontano dalla gente, nel deserto, in grotte o anfratti. Alla ricerca della purificazione fisica e spirituale, si racconta che visse vent’anni nutrendosi solo del pane che gli veniva portato due volte l’anno. Si narra che Antonio fu più volte vittima delle tentazioni del demonio durante la sua lunga vita da eremita, che ha ispirato artisti e pittori.
Icone
Antonio era dedito alla cura dei malati, dei bisognosi e dei pellegrini, che arrivavano da ogni parte dell’Oriente. Lo stesso imperatore Costantino e i suoi figli ne cercarono consiglio, come racconta il suo discepolo Anastasio. Il suo culto fu ampiamente diffuso durante il Medio Evo dall’ordine degli Ospedalieri Antoniani. Questi erano soliti preparare creme e unguenti con erbe medicinali unite al grasso di maiale o di cinghiale, e che per questo accompagnano il santo in numerose iconografie. Lo stesso bastone che Sant’Antonio porta in numerose iconografie termina con un tao che richiama l’ordine degli Antoniani, come protezione contro la lebbra.
Un maialino all’inferno
La leggenda vuole che una scrofa partorì un maialino molto malato proprio ai piedi del santo. Antonio curò il piccolo maialino e lo salvò da morte certa: questo, per gratitudine, lo accompagnò in tutti i viaggi del santo, anche quello più spaventoso all’inferno. Infatti, Sant’Antonio scese negli inferi per rubare il fuoco al demonio e portarlo fra la gente, che soffriva il freddo. Proprio qui, il maialino con una campanella legata al collo, scorrazzando per gli inferi, distrasse il demonio mentre il santo portava via il fuoco.
Come Prometeo
Una leggenda che, inevitabilmente, accosta Sant’Antonio al mito di Prometeo: il fuoco rubato dal mondo ultraterreno che viene donato al popolo per riscaldarsi, cuocere il cibo ed illuminare la notte. Ed ecco che ogni anno, nella fredda notte tra il 16 e il 17 gennaio, in molte città d’Italia è usanza accendere un falò propiziatorio, in onore del santo. Durante il workshop “Il focarazzo propiziatorio“, come vuole la tradizione, abbiamo mangiato, bevuto e festeggiato in onore del fuoco, della vita e del passaggio dall’inverno alla primavera. Un rito che fonde il sacro e il profano, come spesso accade in Italia, e che unisce davanti al fuoco caldo le persone delle comunità, ieri come oggi.
Offerta alla dea
Le feste e le cerimonie in campagna hanno tutte funzione lustrale e fecondante, pulizia dei campi e purificazione degli uomini e degli animali. Il falò di Sant’Antonio si fonde con un rito già in auge presso la Roma Antica, dove una scrofa gravida veniva sacrificata alla Grande Madre Cerere, dea della fertilità. Nell’Olimpo, Cerere era rappresentata da una matrona bella e affabile, con le spighe in capo, una fiaccola in una mano e un canestro ricolmo di grano e di frutta nell’altra. Per ingraziarsi le attenzioni della dea, i contadini facevano un’offerta nel freddo mese di gennaio, per augurare fertilità e abbondanza nei raccolti primaverili.
Bacche di gennaio
La natura accompagna l’evento del fuoco di Sant’Antonio con una lenta e continua metamorfosi: trasformazioni che la sapienza contadina ha imparato a seguire e assecondare, con profondo rispetto. Dopo una passeggiata botanica a Fattoria Attanasio, dove abbiamo osservato le piante tipiche della macchia mediterranea, scoperto i loro possibili usi e le loro proprietà, ci siamo cimentati nella raccolta di prodotti che offre la stagione. Proprio nel mese di gennaio, una pianta tipica della flora mediterranea porta a maturazione i propri frutti: il mirto.
Bacche profumate
Il mirto (Myrtus communis L., 1753), detto anche mortella, è una pianta aromatica tipica della macchia mediterranea appartenente alla famiglia Myrtaceae e al genere Myrtus. Con portamento a cespuglio o arbusto, il mirto è un sempreverde dal profumo tipico e dalle foglie ovali-acute, che lo distinguono facilmente dal lentisco. Si adatta bene ai terreni siccitosi e poveri, ma teme il freddo, motivo per cui non cresce ad alta quota. I fiori del mirto sono delicate nuvole profumate che si trasformano in bacche dal tipico colore rosso-bluastro già da novembre. Le bacche di mirto sono particolarmente ricche di antociani e polifenoli, nonchè di tannini che le rendono allappanti al palato.
La raccolta del mirto, svolta durante il workshop secondo la tradizione cilentana, è stata fatta a mano per poter godere del piacevole profumo che si sprigiona durante l’attività: un’aromaterapia immersi nella natura, tonificante e antistress, che stimola il corpo e la mente.
L’atleta imbattibile
La pianta di mirto è strettamente legata alla leggenda di Myrsìne, fanciulla dell’Attica (regione storica della Grecia), estremamente abile nei giochi ginnici. Era talmente brava da riuscire a battere donne e uomini, senza indugio. Un giorno funesto, un rivale in gara, dopo essere stato miseramente battuto, non accettando la sconfitta si scagliò contro Myrsìne e la uccise. Mossa a compassione, la dea Atena trasformò il suo corpo in una pianta. I suoi fiori delicati e fragili avrebbero ricordato la femminilità della fanciulla, e le foglie sempre verdi, sia d’inverno che d’estate, avrebbero simboleggiato il vigore della straordinaria atleta. Il sangue fuoriuscito dalla ferita della giovane Myrsìne divenne piccole bacche rotonde, che maturavano nel gelido inverno. La pianta è stata sempre considerata come fonte di energia positiva. I greci e i romani usavano il mirto come simbolo di purezza, d’amore, di bellezza e di fertilità. Infatti il mirto è considerato ancora oggi il simbolo di protezione per gli amanti poichè veniva usato per realizzare corone per le giovani spose.
Ricette contadine
Il mirto ha un sapore deciso e caratteristico. Per poter gustare tutte le proprietà organolettiche delle bacche di mirto è necessario raccoglierle dopo il freddo d’inverno, nel mese di gennaio. L’uomo ha imparato a seguire questi ritmi naturali e utilizzarli per le produizioni d’eccellenza, come i liquori tipici della cultura locale. Un liquore che da sempre accompagna le comunità del mediterraneo che hanno la fortuna di poter raccogliere le piante che crescono libere nella macchia è il mirto.
La preparazione del mirto cambia da paese a paese e, come ogni antica saggezza contadina, viene tramandata oralmente, di generazione in generazione. Durante il workshop “il focarazzo propiziatorio” abbiamo scoperto come preparare un buon mirto, quali principi si nascondono dietro l’estrazione con alcol e come arricchire la nostra ricetta.
Un liquore d’eccellenza
Si tratta di un’estrazione a base alcolica (come il limoncello per intenderci). In particolare il liquore è ottenuto per macerazione alcolica delle bacche di mirto (in alcune ricette anche le foglie, ndr) e l’aggiunta a freddo di sciroppo di zucchero. La gradazione alcolica che si ottiene è data dalla percentuale in volume dell’alcol etilico (etanolo) diviso il volume del prodotto, ad una temperatura convenzionale di 20°. Quindi un liquore ottenuto con 1000 ml di alcol a 90°, 1000 ml acqua e 500 ml di zucchero, avrà una gradazione di 36° (90°x1000:2500=36°). Se si volesse diminuire il grado alcolico si può intervenire nella ricetta aumentando il quantitativo di acqua o riducendo quello di alcol. Dopo averlo preparato, il liquore va fatto maturare al buio e al fresco e solo dopo si potrà sorseggiare in compagnia, brindando alla salute, alla sostenibilità e alla buona agricoltura!
Select the fields to be shown. Others will be hidden. Drag and drop to rearrange the order.